Più volte sono stata invitata a raccontare la mia esperienza: esser madre di una figlia profondamente handicappata.
Ho accettato di farlo perché mi sembra molto importante far conoscere i nostri figli, in modo che gli altri abbiano un comportamento diverso nei loro confronti e perché spero che venga loro riconosciuto il posto di cui hanno bisogno.
Questa testimonianza può essere fatta in modi diversi.
Oggi mi rivolgo a chi ha il dono inestimabile di guardare alle cose in modo “diverso” perché ha la fede, che ci permette di trovare il senso della vita, di scoprirvi lo sguardo di Dio che ci ama.
So bene che questo non cambia in nulla il problema: il bambino non diventerà più leggero da portare; ci scontreremo ugualmente con il rifiuto di ogni soluzione che gli andrebbe bene, con l’incomprensione degli altri; il suo handicap porterà sempre mille rinunce al nostro modo di vivere.
Ma so, anche, che questo cambia tutto e, poiché ho superato ormai diverse tappe (l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta di mia figlia), sperando di non ferire con le mie parole la sofferenza ancora viva d’altri genitori, posso dire che la presenza di una figlia come la mia è anche fonte di gioia, perché ho scoperto che Dio attraverso lei è presente nella mia vita.
Siamo tutti chiamati – loro come noi – in modo diverso. È più facile dire “sì” a 20 anni di fronte all’avvenire, credendosi padroni della strada da seguire per tendere alla santità, che scoprire più tardi quello che Dio ha scelto nella nostra per invitarci a seguirlo. Ci vuole molto tempo per capire questa cosa.
Per quanto mi riguarda, avevo pensato a tutto tranne ad essere mamma di una bambina nata male, colpita da paralisi cerebrale, gravemente handicappata.
Lorenza ha 24 anni e un sorriso meraviglioso. Dipende in tutto e per tutto da noi: non cammina, può usare le mani con difficoltà, non parla – la devo lavare, imboccare, portare in braccio. Ha probabilmente un livello di intelligenza molto basso: questa è senz’altro la cosa più difficile da ammettere e da accettare. Le diversità fisiche, ce le spieghiamo meglio di questa stranezza di uno spirito che non corrisponde alle nostre norme.
L’esperienza di noi genitori che sappiamo, per intuito, che il valore profondo dei nostri figli non dipende né dalla bellezza, né dall’intelligenza, non ci fa forse cambiare dal di dentro i nostri cuori induriti, dandoci uno sguardo nuovo sulle persone e facendoci vivere, con evidenza, le beatitudini?
La conoscenza intima di un essere la cui vera ricchezza è sconosciuta, ci porta naturalmente a rovesciare la scala dei valori proposti dalla società che ci circonda – causa per molti di smarrimento – per affermare le realtà e il primato dell’invisibile e il posto dell’amore.
Se questa esperienza trasforma il nostro modo di vedere le cose è anche stimolo al nostro agire.
Ho lottato – come tanti altri genitori – contro il rifiuto che si opponeva a mia figlia, le cui condizioni non permettevano nessuna integrazione nelle strutture esistenti dieci o quindici anni fa: fisicamente troppo handicappata per vivere con i deboli mentali, troppo debole mentalmente per avere posto fra gli handicappati fisici. Ho ascoltato – come molti altri – il verdetto medico: “Non c’è niente da fare per lei” “Ricoveratela in un istituto, dimenticatela”. “Cercate di avere un altro figlio”.
Ma io come altri genitori – non potevo ammettere che per mia figlia non ci fosse nulla da fare; proprio grazie a quell’intuizione del suo valore in quanto persona, non solo oggetto di cure, ma desiderosa di vivere, con le sue possibilità di essere felice o infelice, con il suo bisogno di amare e di essere amata.
Per noi genitori, prima di essere la “nostra figlia handicappata” è stata la “nostra figlia”, che abbiamo atteso, portato; alla quale abbiamo dato un nome, un posto nella famiglia; la bambina che abbiamo visto crescere e svilupparsi, certo non come tutti gli altri, ma senza renderci conto della gravità di questo handicap che si svelava poco per volta. Qui sta la differenza con il professionista che prima vede l’handicap e poi, poco alla volta, scopre, al di là della sua conoscenza tecnica o scientifica, la persona.
Per me, come per altri genitori, questa conoscenza intuitiva si portava dietro il rifiuto della condanna a morte rappresentata dalla mancanza di una struttura che l’accogliesse, sicura com’ero che si poteva fare qualcosa per lottare contro l’handicap, per far sì che vivesse come gli altri, acquisisse il massimo delle possibilità per VIVERE.
Non importa che questi nostri figli rimangano dipendenti dagli altri per sempre, che per sempre siano improduttivi: essi hanno il diritto e bisogno di educazione adatte a loro e, per il futuro, di luoghi dove poter vivere. Da qui è sorta l’unione con altri genitori che si trovavano nella stessa situazione, per creare, animare, costituire le strutture indispensabili alla loro vita.
Per persone così gravemente colpite – delle quali dieci anni or sono (negli anni 70, n.d.r.), ancor meno oggi, nessuno voleva sapere – questo significava un moltiplicarsi di sforzi e di energie che difficilmente può immaginare chi non li ha vissuti.
Da questa unione, quanta ricchezza è venuta fuori, quale forza luminosa ha messo in comunione profonda genitori che vivevano – pur in condizioni spesso molto differenti – lo stesso problema.
E questa apertura, questo ascolto per capire e trovare il modo per attenuare una sofferenza ben conosciuta, quanto poi ci ha aiutato ad amare tutti gli altri, ad ascoltare…Come è utile imparare a comunicare con un bambino che non parla per sapere andare al di là delle parole. E così si impara anche a osare chiedere e ricevere un aiuto per mandare avanti i progetti indispensabili per i nostri figli.
Anche questo è unirsi agli altri.
Resta da dire che dopo la creazione della nostra associazione (Les amis de Karen) siamo stati aiutati in modo meraviglioso da molte persone che non erano direttamente implicate ma che sapevano offrire tempo, competenza, denaro per aiutarci a creare centri di bambini, ora giovani adulti, seriamente handicappati. Questo aiuto prova che molti capiscono come sia importante non lasciare i genitori assumersi un peso così gravoso da soli: peso che impedisce di avere qualche momento per sé, distinto dalla vita dei figli, per sopravvivere noi e loro, perché poco alla volta essi possano trovare il loro posto, come gli altri, e condizioni per vivere – a modo loro – felici.
Grazie agli sforzi della nostra associazione, ora Lorenza ha una vita distinta dalla mia e se la sua esistenza ha trasformato la mia vita è molto più perché mi obbliga a pensare e ad agire in modo diverso che per il bisogno che ha della mia presenza, anche se le devo dare molto tempo.
È una luce, una chiamata.
Non avevo previsto… non sapevo dove mi avrebbe portato questa decisione di vedere mia figlia felice malgrado il suo handicap. Non so quando finirà questa avventura… ma quello che so, quello che sento è che lo Spirito Santo guida la nostra ricerca e bisogna avere fiducia in lui.
Questa figlia per me, per la mia famiglia è, fra altri segni certamente, un segno della tua presenza Signore, Tu che ti manifesti sempre là dove non ti aspettiamo e che aspetti che scopriamo.
– di Marie Claude Fabre, 1983, da Ombres et Lumiére N. 47
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.2, 1983
SOMMARIO
Editoriale
Speranza a dura prova di Mariangela Bertolini
Dossier: Conoscere l'handicap
Lorenza di Marie Claude Fabre
La paralisi cerebrale infantile di Roger Salbreux
Intelligenze prigioniere di Nicole Schulthes
Fermatevi per ascoltarci di Patrick
Terapia con il cavallo di Sara Mc Allister
Per esempio a Vicenza di Sergio Sciascia
Rubriche
Dialogo Aperto n.2
Vita Fede e Luce n.6
Libri
L'educazione religiosa degli handicappati nelle opere di Henri Bissonier, Maria di Gialleonardo
L'assistenza educativa al bambino con paralisi cerebrale nella prima infanzia, Adelaide Grisoni Colli
Non temere, Jean Vanier
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