Per me, mamma di R., non è facile parlare della mia esperienza di madre di una bambina cosiddetta “non grave”. Non è facile per quel naturale riserbo che ci suggerisce di tenere per noi le nostre più intime e profonde esperienze. Proverò comunque a fare la cronaca.
La mia bambina è nata prematura (peso: 1 kg alla nascita), ma dopo quattro mesi di incubatrice, è venuta finalmente a casa, accolta da suo padre e sua madre con una gran festa. Sono seguiti alcuni mesi di gioia perché la bambina, anche se lentamente e attraverso varie difficoltà, cresceva come crescono tutti i bambini. Poi una domenica sera la crisi: corsa a trombe spiegate verso l’ospedale, ore di attesa pietrificata e poi il medico che di persona viene a dire: “Ce l’ha fatta!”.
Ma a quale prezzo! La bambina ha ricominciato tutto da capo, questa volta con difficoltà tali da sembrare a volte insormontabili: non imparava più spontaneamente come tutti i bambini, ogni cosa doveva esserle insegnata e veniva appresa dopo lunghissimi esercizi di addestramento. Giorni, mesi, anni passati a parlare ad una bambina che sembrava non stesse a sentire, a ripetere giochi che sembrava non seguire, a metterle in mano oggetti che lasciava regolarmente cadere, a reggerla perché si tenesse seduta, ad aiutarla perché si muovesse rotolando sul pavimento ed infine perché camminasse.
Ricordo una serie infinita di “torri” costruite con gli appositi bicchieri di plastica colorata; formate adagio, adagio, coprendo la sua manina con la mia mano, piegando pian piano le mie dita sopra le sue dita perché afferrasse e tenesse ogni singolo bicchiere e lo portasse sopra il precedente. Ed un fiume di elogi e di tenere parole per incoraggiamento.
E il suo rifiuto a prendere i pasti. Accettava soltanto di bere. Allora litri su litri di spremuta di arancia ed i bocconi di cibo, regolarmente frullato, andavano giù ad ogni suo urlo di rifiuto.
Forse è nato allora, in quei giorni interminabili, il nostro bellissimo “rapporto a due”, quel rapporto che ancora oggi esiste e che spero non abbia mai a spezzarsi. Per me era ed è anche un impegno – di quelli ai quali non si può venire meno — un impegno a lottare per lei che non ce la faceva da sola. Notti insonni passate a pensare “Cosa posso fare per lei domani?”. E tenevo la mente occupata così, rifiutandomi di pensare a qualunque cosa non fosse il giorno dopo la tappa immediatamente più vicina e raggiungibile.
Gli amici, poco propensi a comprendere ed accettare – come tutti noi purtroppo sappiamo bene – i bambini “diversi”, si sono allontanati, presi da interessi diversi dai miei che erano incentrati quasi esclusivamente su mia figlia. Ed ho costruito la mia vita su misura per lei.
Sono stata molto fortunata: mia figlia ha fatto piano piano moltissimi progressi. Un Passetto dopo l’altro. I medici dicono che è la bambina a cui guardare nei momenti di sconforto, perché testimonia di quanto si possa fare “lavorando” tutti insieme.
Ora mia figlia ha 15 anni. I problemi oggi sono diversi ed io non sono più tanto sicura che sia veramente più facile essere madre di una bambina “non grave”. Naturalmente è meno faticoso e più gratificante in quanto si hanno tante di quelle che comunemente vengono chiamate soddisfazioni, però esiste anche un’altra pena più profonda: credo che tutte le madri di ragazzi “non gravi” sappiano bene come per i loro figli esistano numerosissime occasioni di disagio e mortificazione, di confronto tra se stessi e gli “altri”, di confuse sensazioni di ingiustizia, di sofferenze vissute più o meno costantemente. Le quali, man mano che i nostri figli diventano adulti, sono sempre più difficilmente consolabili dalle braccia delle mamma.
Certo, se mi fermo un attimo a riflettere su questi 15 anni di vita in comune con la mia bambina, li trovo molto ricchi, forse belli.
Sono profondamente convinta che mia figlia ha dato a me molto ma molto più di quanto io potrò mai dare a lei: ha dato un senso alla mia vita, altrimenti piena di delusioni, del resto come quella di tutti. Io sono felice e fiera di essere la madre di R. e ovviamente non la cambierei con nessun’altra al mondo.
Questo per quanto riguarda me. Ma per quanto concerne lei, il discorso è diverso: per quanto riguarda lei, continuerò a ribellarmi fino all’ultimo dei miei giorni e fino ad allora continuerò ad urlare silenziosamente la domanda alla quale non c’è risposta: “Perché?”. Fino all’ultimo dei miei giorni continuerò a gridare: “NO!”
La mamma di R., 1979
Questo articolo è tratto da:
Insieme n.21, 1979