Li lasciamo parlare?
Troppo spesso, anche quando “lui” non è più un bambino, parliamo al suo posto.
Troppo spesso, parliamo di “lui”, anche in sua presenza, alla terza persona.
Troppo spesso, il nostro “parla, ma parla insomma!” non fa che accentuare la sua angoscia di non essere capace di tenere il nostro ritmo.
Troppo spesso ci esortiamo parlare e parlare di “lui” e di quanto lo riguarda, tagliando, soffocando, impedendo finché la parola che “lui” ha sulle labbra, possa fiorire.
Con “lui” non possiamo essere presi dalla febbre che sempre ci agita, dalla fretta, dall’impazienza. Con “lui” ci vuole pazienza, pazienza, niente fretta. E noi abbiamo sempre fretta….
Ciò che ci manca spesso è questo: essere persuasi che “lui” ha qualcosa da dire, da dirci, qualcosa che “ci” importa e che merita che “lui” trovi il tempo, tutto il “suo” tempo e non il nostro, per esprimersi.
La sua presenza
Non bisogna considerare inutile o tralasciare di parlare quando ci troviamo in presenza di un ragazzo handicappato mentale. Anzi: sappiamo bene, e lui ce lo dimostra sempre, quanto gli piace vivere con noi, essere presente quando si parla, anche se siamo con altre persone, e parliamo di argomenti che ci sembrano per lui difficili.
Il nostro giudizio sulle sue capacità di comprensione, è spesso messo in crisi. Egli difatti capisce spesso, più o meno globalmente, o intuitivamente, molto di più di quello che noi crediamo. Non affrettiamoci dunque ad affermare, né per eccesso: “Capisce tutto!”, né per difetto “Non capisce niente!” oppure: “Capisce tutto il contrario!”.
Parlargli
Non basta, in sua presenza, parlare. Bisogna parlargli: il che non vuol dire solo rivolgersi a lui, girarsi verso di lui, conversare con lui.
Parlargli vuol dire adottare una certa lentezza (senza affettazione, ma come desidereremmo ci parlassero quando stiamo imparando una lingua straniera): articolare bene le parole, evitare le parole poco usate o troppo estranee, senza impoverire all’eccesso il nostro linguaggio e soprattutto senza privarlo di quella ricchezza simbolica che è, al contrario, una delle migliori vie di accesso alla sua comprensione e senza cadere, ridevolmente, in uno stile artificialmente puerile.
Vocabolario semplice dunque e che gli permetterà di arricchire il suo vocabolario: piuttosto che evitare una parola nuova, meglio avere la delicatezza di spiegarla al nostro interlocutore.
Val la pena di ricordare che – come quando si studia una lingua straniera – il numero delle parole passivamente capite è molto superiore a quello delle parole attivamente usate.
“Lui” è in grado di capire sulla nostra bocca molte più parole di quante egli ne adoperi in una conversazione.
Dargli la voglia di parlare
Sembra banale, ma non lo è; ricordarci che dobbiamo far sì che “lui” senta la voglia di parlare, l’occasione di parlare, il tempo di parlare.
Un interlocutore attento saprà cogliere al volo una parola rimasta a mezza bocca, rilevare una frase mormorata fra i denti, aspettare che “ciò avvenga”, stimolare la ripetizione, la spiegazione, non come un puro esercizio ma sottolineando che quello che “lui” vuol dire, ci interessa.
E bisogna saper andare più oltre: dare la parola in una riunione, soprattutto in occasione di convegni che li riguardano – l’abbiamo visto fare e il pubblico ha dato l’impressione – in questi casi – di imparare molto più che dai lunghi discorsi di quelle terze persone che sono, inevitabilmente i non handicappati.
Saper ascoltare
È importante ancora sottolineare lo sforzo che bisogna assolutamente fare per saper “ascoltare” il soggetto detto “debole” quando parla; saperlo precedere con eventuali domande ma soprattutto con sincero interesse per quello che dice, che potrà dire, per il parere che darà, per ciò che gli sta a cuore.
A maggior ragione è importante saper ricevere bene la domanda che egli farà – se ne farà una – e che, essendo relativamente rara, merita di essere accolta, presa sul serio, considerata realmente e incoraggiata.
Il miglior incoraggiamento è rispondervi.
Saper tacere
Se importa saper ascoltare, subito dopo viene il saper tacere. Se per ascoltare è bene saper tacere “durante” e “dopo”: per discrezione, per rispetto verso il nostro interlocutore e per le parole che ha detto altrettanto sarà difficile riprendere il dialogo.
Troppo spesso, infatti, pensiamo che le parole dette da “lui” – sia perché sono poco importanti, sia perché ci divertono – possono essere ripetute.
Così facendo, manchiamo di considerazione verso un diritto della persona: se ci pensiamo bene, non agiamo così verso persone cosiddette normali quando ci fanno delle confidenze.
A noi di meritare la “loro” fiducia e reagire contro l’atteggiamento di poco rispetto cui assistiamo sovente nei loro confronti; atteggiamento che li umilia e li può portare – in qualche caso – a non parlare più.
Saper rispondere
Infine, bisogna rispondere.
Non è sempre facile – Prima di tutto perché per rispondere veramente, bisogna aver ascoltato veramente, aver capito. Spesso non è così.
Poi, perché la domanda può metterci in imbarazzo, anche se questo può sembrare strano: le domande dei così detti “deboli”, non sono sempre domande deboli.
Uno sforzo poi va fatto perché la nostra risposta sia di fatto comprensibile.
Dobbiamo stare attenti ad usare un linguaggio facile, che sia compreso, digerito, “bevibile” da “lui”, evitando fiumi di parole, pensando invece – e questo sarà per tutti, con tutti e per tutti un ottimo esercizio – che più avremo in noi chiara la risposta, meglio verrà enunciata e, quindi, compresa.
Per questi spunti educativi ci siamo serviti del libro “L’Adulte, handicapè mental” di Henri Bissonier, ed. Fleurs – Parigi
Questo articolo è tratto da:
Insieme n.23, 1979