1. La voce della mamma di Angelo
Perché si lotta per questo? C’è da lottare, C’è da lottare per un benessere di. questi bambini. Io non nascondo niente, che vedano, che vedano! Perché dovrei nascondere quello che è mio, che Dio mi ha dato.
Conosco una suora di Maria – le dico: “Ma perché tante croci a me? Io non faccio niente ai male!”
Mi fa così: “Perché Dio la pensa”.
Allora io: “Ma per carità, che Dio non mi pensasse più!”
La suora si è messa tanto a ridere.
È difficile trovare un istituto dove li tengono bene.
Perché non lo rinchiudo? Perché gli istituti di maschietti sono proprio brutti…
Se io sapessi che i ragazzini gli danno un po’ di allegria, che non mancherebbe l’affetto, lo manderei. Mi sono arrabbiata uno volta che si era fatto male.
Se negli istituti ci fosse un miglioramento dei bambini… Ma bambini come questi stanno sempre su una carrozzina.
Io invece, me lo sento – Ecco – Ci vuole dell’affetto. È le scuole non danno questa cosa.
Mandare a scuola il bambino? Ma a che scuola può andare questo bambino? È impossibile. Gli altri non studiano più, ma guardano lui.
Questa è la vita che facciamo io e Angelo. Questa è la vita nostra – che devo fare? Si potrebbe essere molto più felici: cioè, il bambino non sta bene. Questa vita qui, tocca viverla per credere le sofferenze, perché non si capisce questa vita.
Uno che ci passa, sa le sofferenze.
Tante volte ci sono moglie e marito insieme. Prendono la croce e se la rendono più lieve.
Invece a me, tocca lottare per loro e per il padre. Questa è la vita di tutti i giorni: Cercare di sorridere, perché se piangi sempre, è finito. Allora bisogna ridere.
Ci sono momenti di crisi. Però cerco di resistere. Mi sentivo la Madonna addolorata perché avevo già la croce di mia figlia, ma sempre con il sorriso sulle labbra. Non sapevo allora che dopo mi doveva succedere una cosa peggiore.
Angelo è tanto buono. Dio mio, me lo devi proteggere. Ci sono momenti in cui non posso dire neanche una preghiera. Cerco Dio, e niente, niente.
I medici? non mi danno la comprensione. A Angelo non hanno potuto far niente.
A me la gioia di vederlo camminare, Dio non me la darà. Mi hanno detto che lui non potrà mai camminare. Io gli dico sempre:”Poverello di mamma”. Ma perché io dico così?
È una parola che dico con gioia.
Io vedo gli altri bambini giocare; camminare… Almeno mi avesse dato qualcosa per lui.
Io chiedo una grazia al Signore: prima che raccolga me, mi deve raccogliere questo e quell’altra… e dopo muoio ancora più felice.
I miei figli? Vogliono bene a loro. Siamo tutti riuniti, è la cosa più bella che posso dire.
Ho delle sofferenze, ho dei figli che mi danno una grande soddisfazione.
Da un lato, dolore; da un lato, felicità.
La pensione che mi danno, perché è minorenne, serve a pagare l’istituto della ragazza.
2. Dalla parte di un sacerdote
Ti ricordi Angelo, del nostro primo incontro a scuola due anni fa? Tu eri disteso sul tuo materassino ed io ero seduto per terra accanto a te. Anche in questa posizione ero ancora più grande di te, ma tu non me ne volevi. Meglio delle parole, tutto il tuo essere sembrava dirmi: ha “Coraggio! Scendi ancora un po’”.
Non è facile scendere quando si è presa l’abitudine di vedere le cose all’inverso. Io esitavo a seguirvi, te e tanti altri, sulla strada delle Beatitudini per paura di sbagliare direzione… e di andare troppo avanti nella buona direzione.
E poi l’estate scorsa, tu ti sei preso cura di me per due settimane ad Alfedena. Hai avuto molto da fare!
Mentre ti vestivo, ti davo da mangiare, ti cullavo, tu mi ripetevi: “Coraggio! Scendi ancora un po’!”.
La tua fragilità, tra le mie mani, mi chiedeva di rinunciare a tutte le protezioni che mi ero costituito. I miei sistemi ed i miei pregiudizi non resistevano alla tua vulnerabilità e al tuo sorriso.
Angelo, ho conosciuto l’altro giorno un ragazzo di Marsiglia, che mi chiede anche lui di farmi piccolo, Chissà se vi incontrerete un giorno? Il suo nome è Ghislain.
Louis Sankalé, 1979
3. Maria
Come ogni donna quando deve nascere le propria creatura, anch’io speravo e pregavo che la creatura che portavo nel grembo con tanta trepidazione ed amore, fosse sana e bella.
Ero felice di diventare mamma ed immaginavo con tanta emozione il momento che mi avrebbe chiamato con questo dolce nome.
Sognavo che fosse una bella bambina, dal carattere dolce. Così quando nacque Maria fui felicissima, perché il mio sogno si era avverato, ma la mia felicità durò pochi attimi perché subito cominciò il mio ed il suo Calvario, sia fisico che spirituale.
Nella prima settimana di vita, o meglio di agonia, pregai tanto il Signore che me la lasciasse in vita, e che l’avrei amata più della mia vita. Dio esaudì la mia preghiera e miracolosamente la mia bambina cominciò a migliorare.
Quando, finalmente, uscì dall’ospedale e potei per la prima volta tenerla fra le mie braccia, i medici mi dissero che avrebbe avuto delle conseguenze irreversibili, ma, in cuor mio, sperai che si fossero sbagliati.
Purtroppo, con il passare del tempo, capii che i medici avevano ragione, e che la mia speranza di sentirmi chiamare “mamma” erano vane.
A poco a poco imparai a capirla attraverso il suo sorriso, i suoi occhioni azzurri, che sono per me come un linguaggio che non ha fine.
Sento, attraverso la sua espressione, che la mia bambina ha tanto bisogno di amore, e non soltanto del mio, e che le basta anche una semplice carezza per essere felice.
Ho cercato, per quanto possibile, di farle e di condurre io stessa una vita normale, per dare modo alla mia piccola, di venire a contatto con gli altri.
Alcune volte, però, il peso della croce si fa pesante, ed allora l’anima chiede aiuto a Dio, che ascolta sempre il nostro grido.
Il suo aiuto io l’ho visto quando mi ha fatto incontrare la Comunità di Fede e Luce, dove ognuno porta le pene e i pesi degli altri attingendo forza e coraggio dal Cuore aperto di Gesù.
Ho potuto constatare che, in questo tempo di materialismo e di violenza, la bontà alberga nel cuore di tanti uomini, specialmente dei giovani che si dedicano con tanto amore a queste creature, segnate dalla Croce di Cristo; tutto ciò mi ha ridato fiducia in Dio e negli uomini, e soprattutto tanta forza per potere continuare a vivere.
Anna Maria Zampardi, 1979
4. Ascoltarli per me è importante
Non so bene quando sto con M., S.,6., Osa mi vogliono dire i loro sguardi, o i loro gesti, ma proprio per questo mi sento più attenta ad “ascoltarli”. Ascoltarli per me è importante, significa mettersi dalla loro parte e lasciarsi guidare da loro senza portarci dietro tutto il nostro mondo e senza volere che ci si adeguino. Sento che stando con loro così, semplicemente, possiamo stabilire un filo che collega i nostri mondi e che può portarci a partecipare l’uno dell’altro.
È evidente che fra noi ci sono persone con le quali è facile stabilire un rapporto di amicizia in modo che la gioia ed il piacere di stare insieme siano vicendevoli e con loro riusciamo a trovare anche degli interessi comuni che ci uniscono in un gioco, in un canto, in un lavoretto. Con altri spesso questo è impossibile; ma anche se i loro occhi sono assenti e non sembrano volerci comunicare niente; sono certa che con ognuno di loro può nascere un “dialogo”, uno fra i più belli, se solo stiamo attenti ad ascoltarli.
Mi capita spesso di trascorrere un pomeriggio con questi amici e a volte non sono riuscita ad ascoltarli; questo succede quando mi pongo nei loro confronti piena dei miei pensieri e quindi legata alla mia persona e al mio mondo. Così, e questo succede spesso nei nostri rapporti con gli altri, è difficile cogliere le esigenze e le caratteristiche altrui. Insomma ci aspettiamo che una persona sia come noi la vorremmo, negando così la sua originalità e rendendo universale il nostro io.
Questi nostri amici ci insegnano una grande cosa: accettare l’altro così com’è e andargli incontro scarichi del nostro mondo e disponibili ad accoglierlo. Penso che sia l’insegnamento più importante che ci proviene dai nostri amici più feriti, da quelli che più sconvolgono le nostre aspettative. Ma non dimentichiamoci che lo scambio di doni deve essere reciproco, perciò penso che dobbiamo continuare a comunicare insieme aumentando sempre più la nostra amicizia fino a che il gruppo diventi veramente una famiglia in cui ognuno porta il suo contributo e viene accolto con gioia per quello che è. Insomma sento che dobbiamo camminare poco a poco oltre la casetta, forse verso l’Arche.
Anna Cece
5. David è un bambino molto buono
David è nato prematuro di 6 mesi, pesava esattamente Kg. 1.150, e dopo 15 giorni dalla nascita ebbe la crisi respiratoria e lottò tutta la notte contro la morte.
È una cosa difficile raccontare la nostra gioia quando si seppe che sarebbe vissuto e la nostra disperazione nell’apprendere tre mesi più tardi che era cieco.
Mi diedero la notizia che ero sola perché andavo all’ospedale tutti i giorni a provare di attaccarlo al seno.
Il medico mi fece sedere e mi disse che David non vedeva e che forse in futuro con un’operazione avrebbe potuto acquistare la vista. Ricordo che tornai a casa come una sonnambula e piansi un giorno intero e insieme a me mio marito.
Il giorno dopo, superato lo shock, tornai all’ospedale con mio marito per avere ulteriori spiegazioni dai medici e forse sperando nel mio intimo che mi dicessero qualcosa di meno grave, Mi dissero invece che forse la cecità era dipesa da un’infezione avuta durante la gravidanza e per qualche tempo avrei avuto dentro di me come un rimorso ma più tardi appresi da un oculista che la causa principale era stato probabilmente l’eccesso di ossigeno data al bambino durante la crisi e che aveva danneggiato gli occhi e mi disse anche che non era il primo caso.
Portammo David a casa e cominciarono le visite di controllo ogni tanti mesi, il bambino cresceva bene ma durante una di queste visite una dottoressa notò che David aveva un braccino tirato ed anche una gambina e così si abbattè un altro guaio perché portato dal neurologo risulto anche spastico.
Aveva meno di due anni e incominciai a portarlo presso un ambulatorio per bimbi spastici per praticargli la terapia e con la speranza che ciò servisse a farlo guarire.
L’ho portato tre volte a settimana presso il centro e poi gli facevo la terapia in casa quattro volte al giorno ma dentro di me sentivo un senso di colpa per non essere stata capace di mettere al mondo un figlio sano e mi chiudevo sempre di più in me stessa e questo accadeva anche a mio marito.
In quel periodo uscivamo poco da casa ma per fortuna in tutto questo ho avuto l’aiuto dei miei suoceri, poiché i miei genitori
non abitano a Roma, che mi fecero sentire meno sola nel mio dolore. Poi ci fu un’altra fortuna, anche se in un primo momento non la considerai tale – dopo David ero terrorizzata ad avere un altro figlio, cioè la nascita di Elisabetta che ci riportò un po’ di serenità e di gioia.
Nel frattempo cadde ogni speranza di guarigione per gli occhi di David e scoprimmo che ci sentiva poco e non parlava e nonostante le visite specialistiche, neanche i medici sono riusciti a capire fino a che punto sentiva, provammo anche a comprare un apparecchio per l’udito ma tutto fu inutile.
Le madri che hanno vissuto un dramma come il mio mi capiranno meglio, comprenderanno il mio senso di vuoto interiore che poi non è altro che disperazione.
Mi ricordo le parole: “Signora, suo figlio non vedrà mai”.
Nonostante tutto, ogni volta, passato il primo momento di dolore, la speranza tornava.
Mi attaccavo all’idea che in futuro la scienza medica con i suoi progressi avrebbe potuto far qualcosa per David perché dopotutto la speranza è sempre l’ultima a morire e ci aiuta a tirare avanti.
Ora David ha quasi due anni e sono stati anni difficili, ci sono momenti in cui provo il desiderio di scappare via lontano da tutti i guai ma sono attimi e basta uno sguardo a David e vederlo così indifeso e bisognoso di aiuto e tutto passa e prego Dio di darmi la forza di andare avanti e la salute.
È difficile accettare questa situazione perché ci si sposa pieni di illusioni, si dice avremo dei bei bambini sani e poi ci si trova di fronte a questa disgrazia, perché si pensa sempre che queste cose capitino solo agli altri e gli altri ti fanno sentire diversa e ciò a me da fastidio.
Mi è capitato di incontrare degli amici per la strada e hanno ignorato David che era con me come se non esistesse, oppure al mare una signora incinta ha voltato le spalle per non vederlo, o ancora al paese, dove passo l’estate, quando esco con David nessuno parla più e ci guardano come se venissimo da un altro pianeta e a me questo fa soffrire e non capisco se lo fanno per discrezione o per indifferenza: eppure sono persone che conosco.
“David è un bambino molto buono”, non piange mai ed è molto affettuoso perché riconosce le persone e cerchiamo di farlo vivere circondato dall’amore di noi tutti e di renderlo felice.
Però sono lontana dall’essere serena e mi chiedo perché Dio permette queste cose, eppure ora so che non esistono solo persone indifferenti nei confronti di questi bambini (perché ce ne sono tanti) ed ho scoperto che ci sono anche quelle che cercano di aiutarci e che danno parte del loro tempo e del loro affetto ai nostri figli e mi fanno sentire meno sola e mi avvicinano a persone che hanno i miei stessi problemi.
Rosa Maria Stafforti, 1979
6. Il cammino che ci mostrano
Forse l’esperienza di Fede e Luce è così profonda così “paradossale” che il cuore che ha bevuto all’acqua viva dei più piccoli non può distaccarsi da questa fonte che egli sa essere fonte di vita.
Forse l’esperienza di Fede e Luce è così nutriente che gli occhi che hanno visto lo sguardo dei più piccoli non distaccarsi da questo sguardo che è lo sguardo di Dio Crocifisso e Salvatore.
Forse e sicuramente perché noi non possiamo seguire Gesù Cristo che essendo fedeli alla rivelazione di un innocente, Figlio di Dio, lui, l’Innocente, crocifisso e risuscitato affinché divenendo simili a dalla nostra notte sgorghi la luce… non è forse questo il cammino che ci mostrano Maria Francesca, Vincenzo, Noris…
È nella misura in cui ci lasceremo prendere dallo Spirito Santo, da Maria Francesca, Sabina , Massimo… noi saremo aperti al servizio degli uomini.
Pierre Debergé, 1979
7. La pietra scartata… (Mt. 21,42)
Chi sei tu fratellino dallo sguardo teso costantemente nel moto, dall’intelligenza che non coglie le stesse immagini della mia, dal linguaggio che non può arrivare alle mie orecchie?
Cosa significa per me la tua presenza? Perché sto volentieri con te come con un fratello maggiore, con un compagno di giochi, di studio, di lavoro?
Spesso riflessioni come queste passano nella mia testa e nel mio cuore, quando in silenzio restiamo seduti l’uno vicino all’altra, quando ti tengo tra le mie braccia. Ti stringo volentieri a me chiedendomi timorosa con quali sentimenti lo farei se tu fossi mio figlio. Mi chiedo se sarei allora capace di accettare la tua e le mia sofferenza, l’incomprensione e le frustrazioni, la routine quotidiana che si allunga negli anni… Perché esiste il dolore? Perché colpisce te e quanti ti vogliono bene?
Non so, non posso né ho il diritto di ipotizzare qual che non sono ma credo che davanti a te ed ai tuoi genitori il mio compito di amico sia di testimoniare del valore – nonostante tutto – della tua vita; di aiutarti e aiutarli a credere in te; confidare a te e a loro che per me sei importante, perché insegni a chi ti vuol seguire tante cose essenziali, che trasformano.
In te contemplo il Mistero… Ed imparo a vivere e ad accettare, animati da un significato a me incomprensibile – ma forse logico e semplice – i punti oscuri della vita.
Sono le piccole contrarietà di ogni giorno ma anche e soprattutto gli avvenimenti più dolorosi, quelli che costringono a rivoluzionare i proprii piani e progetti.
Con te conosco e credo nel Silenzio.
È un silenzio che sprona a meditare, ad aprire il cuore, ad amare e lasciarsi amare. È un silenzio che chiede amore donandolo per primo, sotto forma di fiducia, di abbandono, di remissività.
È un silenzio che mi parla di ascolto… Ascoltare le tue esigenze inespresse; ascoltare la parte più intima e profonda di me, cosa di cui spesso farei volentieri a meno.
È un silenzio che ha il sapore dell’offerta, della preghiera.
Insieme a te imparo la collaborazione semplice, la fratellanza.
Ti lasci cambiare dall’uno e dall’altro senza protestare, passi mano in mano senza un gemito, per farmi piacere accetti di essere imboccato dal lato sbagliato…
Quante volte agisco io così nella mia giornata, a scuola, nel lavoro, in famiglia? Quante volte per la gioia altrui sono capace di sacrificare un po’ della mia comodità?
Ecco, la tua amicizia mi spinge a rivedere il mio modo di essere; a vedere le persone intorno a me – tutte le persone – al di là del primo contatto istintivo, come fratelli soggetti di diritti e di esigenze. E a fare uno sforzo per entrare in comunione con loro, per mettermi sulla loro lunghezza d’onda.
A furia di sforzarmi di andare al di là delle apparenze e capire il tuo linguaggio (ma per me tu sei sempre stato tu e non ti ho mai pensato diverso, perché allora scenderesti nell’anonimato, perderesti la tua forza) mi capita una cosa strana: vengo trascinata in un’operazione ben più difficile: andare al di là delle apparenze, cercare di capire il linguaggio di ogni persona che trovo ogni giorno sulla mia strada. Pensare che anche lei ha qualcosa da darmi e insegnarmi prima di dover imparare da me.
È gustare, grazie a te, la bellezza di questa scoperta.
Maria Grazia Pennisi, 1979