Sono stata a Bruxelles dal 28 dicembre al 31 marzo. Ci sono voluti due o tre anni per convincermi ad andare a lavorare nell’accoglienza di ragazzi con handicap.

La mia grande emozione è paura, cominciò già dalla stazione Termini, ma mi feci forza perché incominciavo a pensare già ai momenti in cui mi sarei voluta trovare sola.

Quando il treno stava per muoversi avevo voglia di urlare “voglio scendere”, pero dentro di me c’era un grande orgoglio: “Voglio provare. Perché solo gli altri devono essere bravi e forti e devono riuscire a fare le cose?”.

Il mio grande viaggio ebbe così’ inizio in tutti e due i sensi: 20 ore di treno, 3 mesi lontana da casa e dagli amici.

Durante la notte mi vennero in mente le solite domande: “Se non riuscissi a far niente”, “Ho paura?”.
Finalmente è mattina, ecco la grande targa “Bruxelles”.
Mi precipito: “Che bello! Ci sono delle persone anche per me! Ivan, Nado…”.

Poi dopo le presentazioni e varie domande (alle quali imbarazzatissima ho risposto!) siamo andati alla Ruche, la casa dove avrei vissuto por tre mesi con altre 13 persone: una casa più piccola del Toit con tanto calore umano, come del resto ogni casa.

L’impatto molto duro per me è stato al centro Yasse dove vanno a scuola dei bambini handicappati fisico — motori. Molto duro perché se già mi sembravano tanti i ragazzi e ragazze che erano a Roma nei nostri gruppi, figuratevi il confronto con il centro e le case dove ce ne sono tantissimi.

Veramente i primi giorni entrare lì era un grande sforzo “perché io ero libera di fare qualsiasi cosa, muovermi come volevo e loro si devono servire sempre di una persona che li aiutasse a fare qualsiasi cosa”.

Ma quello che era molto bello erano le persone che si dedicavano a loro in piena disponibilità e che cercavano d’avere sempre un volto sereno.

Che cosa sono i nostri problemi al confronto d’una persona che sin dalla nascita deve stare su una sedia a rotelle oppure una mamma che vive accanto a suo figlio e che spera sempre che un giorno parlerà o correrà come tutto gli altri bambini?

Nella casa dove vivevo io eravamo in 14 ma il numero non era mai fisso perché ci sono sempre persone che vengono a fare questa esperienza e anche perché a pranzo c’è sempre uno scambio con le altre case.

Devo confessare che i primi giorni era un po’ duro vivere lì.

Mi sentivo sperduta ma poi quando seppi quali erano i miei compiti mi sentii più indipendente.

Il ritmo della giornata era molto attivo; ci si alzava la mattina verso le 8 e ci si trovava per la colazione; alcuni si erano avviati già ai loro posti di lavoro ma in quattro o cinque ci ritrovavamo a fare colazione insieme perché eravamo quelli che restavano in casa.

Dalle ore 8.30 il cancello della casa era sempre aperto e qualsiasi persona che voleva entrare a salutare o a chiedere qualcosa, aveva sempre un’ottima accoglienza.

Due o tre volte a settimana andavamo a prendere dei bambini al centro Yasse e li facevamo mangiare con noi e poi al pomeriggio ci dedicavamo insieme o a preparare la cena o a fare dei lavori di collage, ecc.

Era bellissimo vedere tutte quelle persone nella chiesina che cercavano di stringersi per far posto ad una carrozella, per far spazio ad un bambino.

Far posto a tutti noi ma soprattutto al Signore affinché forse tra noi.

Un’altra cosa che raccoglie molte persone appartenenti o meno ai centri di Bruxelles è la Messa, tutti i sabati al Collegio S. Michel.

Ci sarebbe ancora tanto da raccontare, vi ho detto quello che mi ha colpito di più, e spero che anche Roma prima o poi riusciamo a fare cose del genere.

Elsa Persiani, 1978

Questo articolo è tratto da:
Insieme n.19, 1978

Sono andata a Bruxelles a fare volontariato ultima modifica: 1978-12-18T09:30:34+00:00 da Redazione

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