Ascolta questa storia.

È successa ieri a Gallarate vicino a Milano. Luciana Baroffi di 36 anni teneva la figlia Cristina di 16 anni a dormire in balcone.
Ieri faceva meno cinque gradi.
I vicini hanno chiamato la polizia.

In verità Cristina dormiva sempre in balcone, ma ieri nevicava. Cristina è handicappata.
Hanno arrestato la madre.
Questo è il fatto. Ma la storia di Cristina e di sua madre è cominciata 16 anni fa, e continua.

Noi diciamo: “Bravi i vicini!”, “Che madre snaturata!”, “Come può una mamma trattare così una figlia, una figlia malata per di più?”, “Fortuna che sono intervenuti i vicini. Pensa se invece di telefonare al 113 se ne andavano a letto”.

Anche io; anche te, avremmo fatto lo stesso. E avremmo fatto bene. O no?

La vicenda di questa madre non la sappiamo, ma sappiamo la vita di altri genitori con il figlio diverso. Una vita senza speranza dal giorno in cui ti accorgi che il tuo bambino non è normale.

Gli altri crescono. Lui resta piccolo.
Gli altri corrono. Lui si trascina.
Gli altri parlano. Lui mugola.
Gli altri… e lui no.

Ti trovi a portare da sola questo peso. Di giorno lavalo, imboccalo, puliscilo, spingilo. Di notte ti sveglia. Non c’è festa mai. Non c’è vacanza. Un mese dopo l’altro. Finché non ce la fai più e la metti sul balcone. Sul balcone dove lo vedono i vicini, e telefonano alla Polizia. L’unica cosa che hanno fatto in 16 anni.

I vicini sono brave persone, babbi e mammine che non hanno fatto qualcosa prima. Persone di coscienza come ognuno di noi, che per muoversi aspetta il dramma e non gli passa per la mente che il dramma, silenzioso e nascosto, quelli ce l’hanno giorno per giorno.

Fare qualcosa di diverso da una telefonata voleva dire faticare, spendere qualche ora, andare da Cristina, portarla fuori, lasciando un po’ di respiro alla madre; rischiando magari di cominciare a sentirsi dentro qualcosa che non ti fa più stare comodo.

Perché sta comodo chi pensa a sé e non vede gli altri, specie quelli che ci chiedono, anche senza parlare.
E se poi ci domandano che pensiamo dell’handicappato, la risposta è pronta: “È uno come noi, ha i nostri stessi diritti!!”.
I nostri diritti sono tutelati dalle leggi. Anche ai loro bisogni si deve provvedere con leggi.

Prima erano chiusi in istituti ma si è capito che non era la soluzione. Oggi si è deciso: reinserimento. Riportiamoli in mezzo a noi, a scuola, nei quartieri, nei posti di lavoro. E facendo così abbiamo visto i limiti di questa soluzione.

Non è dicendo all’handicappato “Sei uguale a me” che si cancella la sua differenza.
Perché non è dicendo al cieco, sei uguale, che si può fargli guidare la macchina.
Perché non è dicendo allo storpio, sei uguale, che si può farlo correre con noi.

Ma allora in che cosa è uguale a noi?

Nella sua dignità di essere umano, per te che sei uomo.
Nel suo valore di fratello, se ti senti figlio di Dio.

Ma per la vita di tutti i giorni, per usare il cucchiaio, per allacciarsi la scarpa, per capire il mondo che lo circonda, è diverso, è completamente diverso.

Allora viene il sospetto che dirgli “Tu sei uguale” è solo un modo per mettersi a posto la coscienza.
“Se sei uguale, non hai un bisogno particolare di me. Mi impegnerò politicamente, quando ne avrò il tempo, perché tu sia garantito da buone leggi, curato in buoni ambulatori, fornito del denaro che ti serve”. E naturalmente se ti vedrò sul balcone chiamerò la Polizia.
La coscienza è a posto.
O no ?

In realtà la soluzione ancora non c’è. L’handicappato campa un po’ meglio, ma rimane un isolato, finché non ci decideremo di occuparci sul serio di lui, anche se questo può costarci molto caro.
Non dimenticare che c’è handicappato e handicappato.
Al cieco basta porgergli un braccio. Ma lo storpio devi sollevarlo. Al paralitico devi fargli tutto; e il minorato mentale che non lo senti uomo, devi trattarlo come persona.

E questo tutti i giorni, non una ora la settimana, quando ti senti in vena di altruismo, perché se lui è veramente inserito ti sta continuamente accanto: sul banco, a casa, in autobus.

È un impegno gravoso da prendere. E devo prenderlo io, devi prenderlo tu, entrando in un ordine mentale diverso, diverso da quello che è il nostro abituale e ci consiglia di campare bene e di non starci ad angosciare troppo.
Cambiare mentalità.

Senti quest’altra storia.

Poteva essere successa ieri a Gallarate, vicino Milano.
Luciana Baroffio di 38 anni è andata al cinema con gli amici.
La figlia Cristina è stata a casa di una famiglia lì accanto a sentire musica. Cristina si trova bene con loro. Ci sono molte famiglie con cui spesso trascorre qualche ora piacevole; ha trovato molti ambienti che l’accolgono. Sua madre è più serena, non vive in un incubo continuo. Ora tutto è più semplice.

Poteva succedere ma non è successo. Cristina dormiva in balcone ed è arrivata la Polizia.

Manuela Bartesaghi, 1978

Questo articolo è tratto da:
Insieme n.18, 1978

Per la nostra riflessione ultima modifica: 1978-09-17T09:30:34+00:00 da Redazione

Ogni mese inviamo una newsletter

Ci trovi storie, spunti e riflessioni per provare a cambiare il modo di vedere e vivere la disabilità.

Se prima vuoi farti un'idea qui trovi l'archivio di quelle passate.

Ti sei iscritto. Grazie e a presto... anzi alla prossima newsletter ;) Se ti va, quando la ricevi, facci sapere che ne pensi. Ci farebbe molto piacere.