Eccomi stamane in visita ad un piccolo padiglione in mezzo a un prato tutto ricoperto di margherite e di sole. Forse è la consapevolezza di essere sola a “vederle”, quelle margherite, che me le fa trovare così belle… Ma non sono sola a “conoscerle”e ad “apprezzarle”.
Il gruppo dei piccoli della scuola dei non-vedenti è lì sull’erba a cogliere fiori ed a godere il sole; uno dei primi soli della stagione quest’anno così uggiosa!
Sul prato si ritrovano tutti, ma il padiglione nel quale entro è riservato ai bimbi più handicappati, cioè a coloro che oltre alla cecità hanno altre difficoltà gravi (ritardo mentale, autismo, sordità ecc.) che impediscono loro di integrarsi nel programma scolastico dei bimbi non-vedenti.
Il gruppo è in numero ristretto: circa 12 bambini; e molto vario nella sua composizione perché oltre al loro handicap comune (cecità o vista molto ridotta) i bambini sono di età e di livello di sviluppo molto diversi.
Alcuni camminano normalmente; altri non camminano affatto.
Alcuni apparentemente non hanno nessun legame con il mondo esteriore, altri sono molto socievoli.
Alcuni sembrano avere un grave ritardo mentale, altri come F., uno spirito molto sveglio quando si riesce a comunicare con lui.
F. è cieco e sordo. Non parla ma capisce il linguaggio del tatto con la punta delle dita che vedo praticare con successo dal suo insegnante.
Voglio dire che il lavoro detto di gruppo deve essere in realtà molto individualizzato.
Le attività educative che ho potuto osservare mi sono parse molto chiaramente orientate verso lo sviluppo del linguaggio e dell’autonomia, allo scopo di preparare l’inserimento del maggior numero di bambini nella scuola speciale per non-vedenti di cui fa parte questo padiglione.
Lo sviluppo del linguaggio si realizza qui con l’apprendimento della comunicazione nelle sue forme più semplici.
Lo sviluppo dell’autonomia si realizza insegnando loro a camminare e a controllare i molteplici movimenti del corpo e le attività delle mani.
Ma il mio scopo non è di analizzare a lungo un sistema educativo o dei metodi di lavoro. Vorrei solo descrivere ciò che ho visto trascorrendo una mattinata con questi bambini e i loro insegnanti.
Ho potuto osservare tre gruppi di lavoro.
Il primo, intitolato “lezione di linguaggio”, mostra come creare un rapporto con l'”altro”, ciò che è la base della comunicazione e perciò del linguaggio.
Un educatore per ogni bambino, lo stimola cantando, dandogli qualche buffetto con le mani, cullandolo anche, cercando di farlo reagire in sua presenza.
T., molto evidentemente registra e reagisce già con un sorriso… M. al contrario cerca costantemente di sfuggire alle stimolazioni per ritornare ai movimenti indefinitamente ripetuti del suo mondo ma a volte, per un istante, sembra realizzare che un altro le “parli” e, per minimo che sia, è già questo un punto di partenza.
Un altro bambino fa lezione per terra su di un materasso e tutto il suo corpo è sollecitato da movimenti passivi vari.
Bisogna ricordare che, dato che questi bambini non vedono, il contatto deve essere mantenuto costantemente con la voce e con il tatto.
Il secondo gruppo esercita la “motilità”.
Vi partecipano cinque bambini; l’educatrice, anch’essa non vedente, è al pianoforte. È assistita da un maestro, vedente, che aiuta i bambini.
Anche qui il lavoro è molto individualizzato: esercizi di marcia semplice, a ritmo, con tamburi, con oggetti in mano, al richiamo di una voce da una stanza all’altra e… le variazioni sono infinite ma progressive e al livello di ciascuno. Tutto, sempre, ritmato e animato dalla pianista che contemporaneamente canta le direttive a questi bambini che non la vedono.
Confesso di essere stata molto colpita da quella bambina che prima immobile e esitante, si dirigeva sempre più sicura – nella notte completa, ricordiamolo – verso quella voce che la chiamava con chiarezza e insistenza, al suono di una musica allegra e sempre variata.
Questo stesso gruppo l’ho visto in seguito eseguire una lezione che chiamerò di “tattilità” e orientamento.
Il maestro, al centro di un semicerchio formato da tavolini dietro i quali siedono i bambini, distribuisce il materiale, dà le consegne e assiste – al bisogno – l’uno o l’altro.
Una tirocinante aiuta una bambina ancora nuova del gruppo.
I tavolini sono di fòrmica e su ogni tavolo il maestro pone una specie di sottopiatto di materiale vellutato che chiama “la prateria”. Ogni bambino palpa e percorre con la mano “la sua prateria” per conoscerne l’estensione.
Poi il maestro distribuisce delle figurine in plastica dai contorni ben definiti: alberi, case, pulcini, cavalli… Tutto è distribuito progressivamente, esplorato per riconoscerne la forma poi messo sulla prateria secondo le direttive dell’insegnante: la casa a destra, l’albero a sinistra, il cavallo vicino all’albero e così via…
Due bimbe non completamente cieche, possono anche indicare i colori degli oggetti manipolati, altrimenti tutto deve essere capito con il tatto.
Ogni lezione è durata circa mezz’ora.
Forse è banale parlare dell’importanza della musica nell’educazione e nella vita dei non vedenti ma non posso farne a meno tanto sono stata colpita non solo dalla musica ma da chi la eseguiva.
Chi suonava aggiungeva alla sua competenza tecnica un elemento costante di calore umano e di adattamento a ciascuno. Cosa assolutamente insostituibile con un disco o un nastro magnetico.
Le ultime due riflessioni che non posso impedirmi di fare, sono forse anch’esse banali, ma mi stanno molto a cuore.
Nella sezione riservata ai bambini handicappati ho capito una volta di più l’importanza di prendere il bambino al suo livello reale e non a quello della sua età o del nostro desiderio.
Questo piccolo gruppo di educatori ci dà ancora una volta una lezione di fiducia. Fiducia che bisogna avere nelle possibilità di progresso di ciascuno, fiducia basata su un lavoro lungo, paziente e competente.
Nicole Schulthes, 1978
Questo articolo è tratto da:
Insieme n.18, 1978