L’educatore australiano David Byrne che vive e lavora in Inghilterra, è venuto durante dieci giorni d’aprile a “Scuola Serena” per lavorare e vivere con i bambini, gli educatori, i genitori. È venuto a rompere l’isolamento: isolamento dei ragazzi handicappati gravi, incapaci apparentemente di comunicare con il mondo che li circonda, isolamento degli educatori (ciascuno di essi lavora nell’ambito della propria specializzazione) con alcuni dei quali ha saputo formare una équipe viva e operante, arricchita dalla partecipazione dei genitori.
Tutto è cominciato con il ritorno di Sabina a Scuola Serena, dopo tre mesi di cura in una scuola speciale in Inghilterra dove lavora appunto David.
Cieca, sordo-muta (apparentemente) Sabina aveva vissuto fino ad allora ripiegata su se stessa, non mostrando segno alcuno di conoscenza e nutrita solo di cibo liquido. Ritorna da questo breve soggiorno in piedi sulle sue gambe, obbedisce a un certo tipo di ordini (gestuali), può esprimere qualche semplice desiderio unendo le mani in segno di “per piacere”. Certo! Ha ancora molto da imparare. E così continua ad apprendere a poco a poco, i mille esercizi, esigenze, contatti e, penso, anche le gioie della vita con gli altri.
Questo è venuto a mostrarci il suo educatore: bisogna credere che ogni bambino, anche il più handicappato, può progredire e progredirà se si riuscirà ad offrirgliene il mezzo, se si riuscirà cioè a stabilire con lui un contatto umano. E ci ha dimostrato anche che non si tratta di un “trucco” o di una “magia”, ma di un lavoro lungo e duro, realizzato da un’équipe vera, secondo un programma stabilito chiaramente, con l’aiuto di metodi che hanno già dato un risultato pratico.
Credere in ciò che si fa e al progresso di ciascuno: ciascuno al proprio livello – alzare la testa per chi l’ha tenuta sempre chinata, tener aperta la mano per chi l’ha tenuta sempre chiusa… David fin dal primo giorno ha fatto di questa fede la sua arma principale, non ha mai cessato di parlarne e ha concluso il corso con questa parola.
E quando lo si vede, lavorare con Alberto (che vive coricato), o con Massimo (autistico grave) si è subito convinti che questa fede è necessaria per alimentare la forza, la tenerezza, l’immaginazione, la perseveranza, il tutto in una situazione spesso di lotta con il bambino. Perché molti bambini gravemente handicappati oppongono una resistenza di una forza insospettata verso chi vuole rompere la muraglia che li divide dal mondo, verso chi vuol spezzare le loro abitudini.
Con una volontà prodigiosa e una pazienza senza limiti (riesce a lavorare fino a cinque ore di seguito con lo stesso bambino) egli impone la sua presenza e le sue esigenze. A questo punto entra in comunicazione con il bambino, come a dirgli: “sono qui, esisto accanto a te (lo tocca, si fa toccare, lo guarda, si fa guardare) e so che tu puoi fare quello che ti chiedo”.
A mio avviso, questa comunicazione a volte brevissima, questa esigenza a volte dura (il bambino grida, si dibatte, non vuol uscire dal suo trinceramento…), dimostra un vero riconoscimento della dignità umana dell’altro.
David è – se così si può dire – uno specialista della comunicazione non soltanto perché lavora essenzialmente con sordo-muti-ciechi, ma perché considera la comunicazione come base di ogni progresso.
Credendo a questo. con tutte le sue forze è riuscito ad entrare in contatto anche con i più isolati, utilizzando particolari mezzi di comunicazione come, ad esempio, un piccolo apparecchio vibratore al quale sembrano reagire persino i più indifferenti. La vibrazione di tale apparecchio infatti, risulta percettibile e “piacevole” anche ai bambini più tagliati fuori dal mondo che li circonda, vuoi per un handicap fisico (sordità, cecità), vuoi per un handicap psichico (arretratezza mentale grave, autismo). Lo dimostra il fatto che spesso quasi tutti imparano molto presto a richiederla.
Rotto così il muro dell’indifferenza si tratta di utilizzare questa fonte di soddisfazione non per se stessa ma come “ricompensa”per un dovere compiuto. Dovere ridottissimo spesso, ma pur sempre “dovere” dal momento che si tratta di un’azione richiesta dall’esterno da un “altro”.
Non si può dire che questa presenza dell'”altro” sia sempre immediatamente e chiaramente percepita dall’handicappato, ma è sempre nel senso di questa presa di coscienza che il lavoro è compiuto. Non, dunque: “apro la mano” – uguale “vibrazione”(o carezza o musica o altra ricompensa), ma: “tu vuoi che io apra la mano = io l’apro – e tu mi dài qualcosa che mi piace”.
Certamente un condizionamento, ma allargato e tendente sempre a qualcosa di più generale. Perciò, per esempio, si darà la stessa ricompensa per doveri compiuti di tipo diverso, appena ciò sarà possibile. Inoltre, per evitare un condizionamento puro e semplice, gli stessi esercizi saranno fatti eseguire al ragazzo da educatori diversi – uno dietro l’altro – e in ambienti diversi.
Gli educatori del bambino sono la maestra, l’assistente, i genitori, il fisioterapista, lo psicologo ecc.; chiunque ha a che fare con il bambino può e deve parlare questo linguaggio con lui. Queste persone devono quindi formare un’équipe ben unita, avente uno spirito educativo comune e un programma di esercizi ben chiaro, conosciuto da tutti e praticato nello stesso modo da ciascuno.
Come è stabilito questo programma?
È innanzitutto molto individualizzato, basato cioè su un bilancio completo delle possibilità e dei bisogni di ogni bambino. Sono state stabilite tabelle e questionari molto dettagliati che permettono di avere sotto gli occhi il livello del ragazzo in cinque campi essenziali: motilità grossolana, motilità fine, autosufficienza, comunicazione, socializzazione.
In base a questo bilancio, per ogni ragazzo sono segnati gli obiettivi immediati da raggiungere che si ottengono – così si spera – attraverso piccole acquisizioni che vanno ripetute costantemente (es: portare il cucchiaio dalle labbra all’interno della bocca, fare tre passi invece di due…)
Ogni obiettivo è scritto chiaramente sulla tabella personale di ogni bambino e precisa il metodo da seguire e il materiale necessario. Queste tabelle sono la base materiale del lavoro d’équipe di cui ogni membro può lavorare con ogni ragazzo, verso lo stesso progresso e con lo stesso metodo.
Questi programmi individuali dunque sono di un’importanza primaria. Esigono però un esame approfondito di ogni ragazzo, la conoscenza di altri esami e bilanci (medici, clinici ed altri) e serie conoscenze dello sviluppo psicomotorio. Ma richiedono anche un enorme senso pratico e un’immaginazione sempre all’erta per trovare mezzi semplici ma efficaci, per scegliere o inventare nuovo materiale anch’esso semplice ma perfettamente adatto agli esercizi richiesti.
Tutto ciò domanda molto lavoro nelle piccole cose, sforzi ripetuti senza stancarsi, cooperazione fra tutti, compresi i genitori, per quanto è loro possibile.
Mi pare che quelli che hanno partecipato a queste giornate di discussioni ma soprattutto di lavoro in comune, hanno apprezzato il valore professionale ma anche umano di David. Come me, penso, hanno visto nel suo “lavoro” un futuro, una speranza per l’educazione dei bambini handicappati che per così lungo tempo si è osato qualificare come “irrecuperabili” e che sanno mostrarci come anch’essi, dal momento che vivono, possono progredire se noi vogliamo e sappiamo raggiungerli.
– Nicole Schulthes, 1976
Questo articolo è tratto da:
Insieme n.9, 1976